La tristezza e l’angoscia, che sono presenti in molta poesia di Charles Baudelaire, sono radicalmente diverse da quelle leopardiane: immerse come sono, in un linguaggio più discorsivo e più aspro (più desolato e crudele) che mette in correlazione antitetica angoscia e speranza.
Come nell’ultimo “Spleen” dalle prime due strofe:
Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve
schiaccia l’anima che geme nel suo tedio infinito,
e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte
fa del giorno una tristezza più nera della notte;
quando la terra si muta in un’unica segreta
dove, timido pipistrello, la Speranza
sbatte le ali contro i muri e batte con la testa
nel soffitto marcito;
ma nella quarta e nella quinta strofa le immagini della disperazione e dell’angoscia si fanno ancora più intense e graffianti nelle loro tematiche così vicine a quelle che contrassegnano l’angoscia psicopatologica:
furiose a un tratto esplodono le campane
e un urlo tremendo lanciano verso il cielo,
così simile al gemere ostinato
d’anime senza né pace né dimora.
– Senza tamburi, senza musica, dei lunghi funerali
sfilano lentamente nel mio cuore: Speranza
piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra,
pianta sul mio cranio riverso la sua bandiera nera.
Come non afferrare immediatamente le dimensioni multiformi dell’angoscia e le sue stratificazioni esistenziali: l’anima schiacciata che si lamenta nell’infinitudine del suo inenarrabile taedium vitae; la tristezza che dilaga ancora più oscura e più nera della notte; la terra che si trasforma in una prigione inondata dall’umidità; la speranza che, come un pipistrello, si fa male battendo con la testa nel soffitto disfatto e cadente; la speranza che piange sconfitta e frantumata; e infine l’angoscia (definita con termini agghiaccianti) che innalza la sua nera bandiera. Angoscia sottolineata dall’esplodere delle campane e da questo urlo terrificante che esse lanciano verso il cielo. L’ultima immagine, la più dolente e la più nostalgica, è quella del gemere ostinato delle anime che sono senza pace e senza dimora.
Tratto da: Eugenio Borgna (1998), “Le figure dell’ansia”, Feltrinelli, Milano.